È un tema vasto, intricato, complesso. Soprattutto però si tratta di un argomento che si presta come pochi altri a strumentalizzazioni e manipolazioni, come del resto è d’uso in un paese come il nostro, nel quale, tra campanili e giardinetti, la visione allargata di qualunque dinamica appare un’impresa. Ecco allora che nel periodo più nero per quelli che tra gli altri dovrebbero essere comparti fondamentali e strategici per l’Italia, come turismo e accoglienza, un patrimonio umano e storico la cui valorizzazione è ben lontana dall’essere concepita come necessità al di là di vuote dichiarazioni programmatiche, i fondi destinati alla ripresa erano e restano residuali.
Quello che in inglese si sintetizza con il termine sentiment, pregnante condensato di sensazione predittiva, è quanto di più prossimo allo sconforto misto a rabbia, dato da una combinazione micidiale di fattori che partono da una pressoché totale incomprensione del funzionamento del sistema, determinata da un distacco che appare ineluttabile tra decisori e realtà e arrivano a una definizione di fine dell’emergenza pandemica ancora ben lontana dall’essere individuata.
In mezzo a questa situazione drammatica, con la flebile speranza riposta nella formazione di un governo realmente attento alle istanze più urgenti, si ritrovano aziende con identità ed esperienze eterogenee. Differente è la situazione di alberghi e ristoranti di città d’arte, di mare o di montagna, con i primi di fatto praticamente immobili dall’inizio della pandemia e gli altri che sono riusciti tirare una boccata d’aria nel corso dell’estate per poi essere di nuovo bloccati da prima di Natale. Sui risultati economici, al di là di stime e ipotesi, va steso per l’industria dell’ospitalità il pietoso velo di perdite incalcolabili, anche e soprattutto per quel che concerne un aspetto meno evidente ai conti ma umanamente pesante, ovvero il tema della motivazione delle persone che intorno a questo mondo gravitano a vario titolo.
L’incertezza e la mancata percezione del controllo da parte dei decisori sulla situazione vanno di pari passo con le risorse economiche da destinare a indennizzi che non ci saranno. Insieme alla mancata, colpevole consapevolezza del legame stretto tra attività che costituiscono vere e proprie filiere di settore questi sono aspetti drammatici di un contesto altrettanto complicato. Dietro a un ristorante di qualità ci sono famiglie intere di piccoli fornitori che ancor più delle grandi realtà, comunque disastrate, basavano fino a ieri il loro modesto reddito sull’interazione quotidiana con lo chef: contadini e allevatori, pescatori, uomini e donne completamente dimenticati proprio perché entità minime, eppure paradossalmente allo stesso tempo da concepire come patrimonio unico di straordinario valore per la varietà di prodotti e territori che sanno raccontare attraverso il loro lavoro.
È quindi il momento o forse ancor meglio l’ultima vera occasione per aprire gli occhi su un mondo dietro le quinte che rappresenta per questo paese una delle principali possibilità per esprimere il suo meglio, nell’ambito di un Made in Italy di cui si abusa troppo spesso senza conoscerlo davvero fino in fondo.