Tre storie e tre destini alquanto diversi per tre manager di primissimo livello, segnati tuttavia da un tratto comune: una governance che cerca in loro i “salvatori della patria”, salvo poi mettergli le briglie quando gli interessi degli azionisti collidono con le logiche di mercato. Storie che indicano che tra quel groviglio di interessi personali e politici che il modello cooperativo (bianco o rosso non fa differenza) rappresenta, almeno in quelle forme degenerative che hanno assunto da molti anni a questa parte, e le regole di mercato, non è riuscito a trovare una sintesi. E che il modello cooperativo, se non è in grado di cambiare radicalmente, rischia di soccombere ai processi di modernizzazione e di mercato.
La scelta di portare dei manager di primo livello a gestire queste società espressione delle cooperative ha origini molto diverse. Nel caso di Cattolica Assicurazioni, la scelta di portare Minali al vertice fu il frutto di una operazione puramente cosmetica, dopo che per anni i piani industriali della società veronese venivano disattesi e sui destini del Presidente Bedoni incombevano scandali economico finanziari come quello relativo alla partnership con la Banca Popolare di Vicenza di Gianni Zonin e vicende giudiziarie legate a episodi di corruzione di dirigenti dell’Agenzia delle Entrate. Minali, dunque, fu chiamato dal presidente della cooperativa in Cattolica per rilanciarla su basi nuove, ma quando lui mise mano su dossier spinosi, come quello relativo agli investimenti in H Farm, venne brutalmente allontanato. “Conta chi ha i voti in assemblea – e questi li ha Bedoni – e non chi gestisce la società” commentò all’epoca qualcuno, per sottolineare che nel modello cooperativo di banche e assicurazioni a decidere alla fine non erano i manager ma i presidenti.
Conad e Unipol hanno storie totalmente diverse e non assimilabili al caso Cattolica, dove la malagestione regnava sovrana, tanto che dovettero intervenire le autorità di vigilanza fino a dover far cedere la compagnia assicuratrice a Generali. Ma sia Conad che Unipol stanno attraversando momenti complicati dovuti a vicende che vedono comunque una frattura tra le istanze delle cooperative e quelle dei manager.
Nel caso di Pugliese, il manager che con l’acquisizione dei negozi Auchan ha portato Conad ad essere la prima catena italiana di Gdo, si vocifera da settimane un possibile addio. A scriverne in maniera documentata, è stato Sergio Rizzo dalle colonne di Milano Finanza. Aldilà delle questioni specifiche e di merito citate da Rizzo, quello che è noto negli ambienti della cooperazione, è che Pugliese sia finito per essere il bersaglio di alcune delle cooperative socie. I motivi restano al momento ancora poco chiari, ma alla base sembrano esserci rimostranze tra l’impostazione dedita alla crescita e allo sviluppo di un manager – tanto capace quanto ambizioso – e le ragioni di bottega di alcune coop che governano Conad. I risultati di mercato, insomma, non basterebbero a giustificare la presenza di Pugliese, e per le coop valgono altri fattori. Quali, li scopriremo nei prossimi mesi, ma il conflitto è evidente.
Nel caso di Cimbri, invece, non sembra esserci alcun problema di governance. Il manager che dopo aver acquisito gli sportelli ex Ubi a Brescia e Bergamo sta portando a casa tramite Bper anche Carige, ha invece un altro grosso problema. Il socio di maggior peso è infatti Coop Alleanza 3, quello della “Coop sei tu, chi può darti di più”. E Cimbri alla Coop, che versa in uno stato economico – finanziario difficilissimo, tanto da essere agli ultimi posti della graduatoria stilata dal Centro Studi di Mediobanca, dà davvero di più. La distribuzione dei dividenti di Unipol è stata infatti così ricca che ha avuto due effetti: da una parte i mercati hanno punito Unipol, dall’altra Coop Allenza 3 ha leggermente migliorato i suoi conti. Il tema che insomma si pone per Cimbri riguarda la scelta di provare a salvare Coop o, in alternativa, avere fieno in cascina per proseguire nello sviluppo di un polo finanziario emiliano che ha l’ambizione di diventare di riferimento nazionale. Può darsi che ce la possa fare su entrambi i fronti, ma se le Coop non affrontano con decisione la via del risanamento, il rischio che i soci corrono è di tarpare le ali ai piani di sviluppo di Unipol.
Il problema che dunque si pone alle Coop, dopo che per anni è stata la politica a determinarne i destini, è come affrontare le moderne sfide che il mercato pone. Può darsi che la via indicata dai manager non sia quella corretta e che, come si diceva un tempo pur senza averla mai trovata, una “terza via” sia possibile. La forza del modello emiliano nasce infatti da una radicata cultura della cooperazione che ha saputo mixarsi con la capacità di competere delle nuove imprese champions, come sottolinea spesso Andrea Pontremoli di Dallara, parlando della capacità che hanno le imprese emiliane di co-competere.
Le coop sembrano invece avere maggiori difficoltà a sintonizzarsi sulle moderne esigenze di un mercato che richiede nuove soluzioni nel rapporto tra crescita delle imprese e tessuto delle comunità. Vero è infatti che gli imprenditori devono guardare – come dice Aldo Bonomi – “oltre le mura dell’impresa”, ma nei pressi di Bologna qualcuno deve cominciare a guardare “oltre le mura delle coop”.