Mancano ancora i dati di fine anno, ma, considerato che i mesi di ottobre, novembre e dicembre sono stati da “zona rossa” pare evidente che non potranno essere che peggiori di quelli comunicati con l’ultima trimestrale che fa il punto sui primi nove mesi.
Basti pensare che, al termine dei primi nove mesi, il risultato prima delle imposte già segnava una perdita di 38,8 milioni contro l’utile di 20,3 milioni dello scorso anno. Un altro indicatore importante è quello dell’indebitamento, che, al netto dell’applicazione e dei principi contabili IFSR 16, è comunque di 13,5 milioni, contro una disponibilità registrata a fine anno di 68,3 milioni. Insomma, Fiera Milano, al pari di tutti gli altri operatori, nonostante impostanti operazioni di riduzione dei costi e ricorso alla cassa integrazione, paga in maniera pesantissima la crisi.
A portare un po’ di sollievo ai conti della Fiera, ma contemporaneamente a pesare sui conti della Fondazione Fiera Milano, è stata la decisione di quest’ultima di concedere una riduzione di 14 milioni di euro per gli affitti, permettendo così alla società fieristica, come comunicato subito dopo l’accordo, di mantenere l’ebitda positivo per il 2020.
Una situazione dunque pesantissima per la principale fiera italiana, che, il 15 dicembre scorso, ha nominato Luca Palermo nuovo amministratore delegato. In quella occasione il nuovo ad ha annunciato che nei primi mesi del 2021 avrebbe presentato al mercato un nuovo piano strategico. Un piano, precisa il comunicato stampa emesso in quella occasione, “che traccerà le linee guida per una crescita organica e graduale”. Cosa ciò possa significare concretamente è difficile capirlo. Ma che le cose non siano affatto semplici lo si deduce da quello che è sempre stato il punto di forza, e contemporaneamente di debolezza, di Fiera Milano: e cioè le dimensioni del quartiere fieristico. Una dimensione che richiederebbe molte più manifestazioni internazionali affollate come il Salone del Mobile che, non solo mancano, ma anche che, realisticamente per almeno un paio d’anni non potranno essere più tali. Da che parte allora sbattere la testa per tornare ad essere protagonista? Fare incetta di manifestazioni? Aggregare altri?
L’esperienza di Fiera Milano, ogni volta che si è mossa a caccia di nuove iniziative, è stata piuttosto deludente. Tutti ricordano la figuraccia quando cercò un paio di anni fa di strappare a Torino il Salone del Libro con una manifestazione di cui nessuno ricorda più nemmeno il nome. Lo stesso accadde in passato quando provò a “rubare” a Verona il Vinitaly, montando anche in quel caso una manifestazione sul vino mai decollata. Il problema di Fiera Milano, insomma, pare essere quello che in questo momento è “il problema” di Milano. Dopo essersi ubriacati del successo e avere snobbato il rapporto con i territori del Nord, la città si trova triste, sola e abbandonata, ma, soprattutto senza idee.
Basti pensare che sui destini della Fiera, che della città è uno dei motori principali, non si riesce a trovare traccia di un minimo di dibattito pubblico, quasi che la classe dirigente locale fosse incapace di pensare ad altra strategia se non quella “passata la pandemia Milano tornerà Milano”. Strategia miope che rischia di portare la principale fiera del Paese a schiantarsi. E se per le operose provincie emiliano, romagnole e venete, potrebbe essere sufficiente mettersi a sistema, innovare i modelli di business e continuare a sviluppare nicchie di mercato, per Milano non basteranno qualche slogan alla moda e la convinzione che, poiché si è stati grandi, automaticamente lo si tornerà ad essere.