Partiamo da due assunti, il primo teorico, il secondo più concreto. Innanzitutto: il capitalismo degli shareholders è roba vecchia, si è fatta strada già da qualche anno l’espressione ‘capitalismo degli stakeholders’, ossia dei portatori di interesse, clienti, fornitori, dipendenti, azionisti e comunità locali. E questo ci porta al secondo assunto: le imprese, se non si occupano del territorio su cui insistono, difficilmente possono essere competitive, parafrasando una frase spesso citata di Andrea Pontremoli, della Dallara.
Non è un caso che sia proprio un emiliano a dirlo. D’altra parte il ‘modello Emilia’ di cui parla Franco Mosconi nel suo ultimo libro, si fonda – come racconta l’autore e come recita il sottotitolo – su ‘imprese innovative e spirito di comunità’, due fattori chiave del buon percorso di sviluppo della regione, che trova riscontro su più fronti. La dimensione delle sue imprese, ad esempio, i numeri del loro export, la quantità di “Champions”, le posizioni soddisfacenti nelle classifiche europee per innovazione, ma anche l’occupazione femminile, la natalità e l’attrazione di talenti. Elementi che, nel loro insieme, costituiscono un caso di successo non ancora replicato in Italia (e che certamente, per restare in salute, richiederà una buona dose di attenzione, ma questo è un altro capitolo).
Non ancora replicato, dicevamo, perché un tentativo potrebbe prefigurarsi poco più in là rispetto ai confini dell’Emilia, in quella manifacturing valley che si compone nei territori fra le province di Bergamo e Brescia. Le due città, dopo aver vinto insieme il titolo di Capitale italiana della cultura, sono oggi alle porte di un’assemblea congiunta delle due Confindustrie, che fissa come punto all’ordine del giorno la necessità di fare sistema per le due realtà. Insieme costituiscono circa il 50% del Pil regionale, e rappresentano un’area con spiccata vocazione all’export e un tessuto ricco di distretti, in particolare i metalli di Brescia (con un export che tocca i 6,4 miliardi), poi i rubinetti, le valvole e il pentolame di Lumezzane, la meccanica strumentale di Bergamo, quella del bresciano, il tessile e l’abbigliamento della Val Seriana, la gomma del Sebino Bergamasco, i vini e distillati del bresciano. L’esperienza da Capitale della cultura ha poi rivitalizzato anche il turismo delle due province, facendo registrare numeri che dimostrano che, lavorando in sinergia, si possono ottenere risultati che vanno ben oltre la somma dei singoli addendi.
Ma come evitare il rischio, effettivamente molto concreto, che la Capitale della cultura sia solo una scintilla destinata a spegnersi in fretta? I distretti devono entrare in connessione, le imprese fare massa critica, mettersi in condizione di affrontare con soluzioni comuni problemi che comuni lo sono già. Si pensi alla difficoltà di reperire lavoratori accentuata da una curva demografica preoccupante, agli aumenti di costi e alla difficoltà di approvvigionamento di materie prime, all’arretratezza delle Pmi sul fronte della digitalizzazione, alle richieste pressanti della transizione ecologica, e più in generale alla sempre più forte competizione sui mercati internazionali. Quello che è scontato dire è che ogni processo di questo tipo si andrà a costituire – eventualmente – in forme e maniere diverse, sulla base delle specificità territoriali. Se in Emilia-Romagna c’è una politica da sempre a vocazione comunitaria, Bergamo e Brescia dovranno necessariamente trovare una loro specifica soluzione per ovviare allo spiccato individualismo che le contraddistingue (assieme a molti altri territori: su alcune province venete non si potrebbe dire niente di diverso). Da parte delle Confindustrie, presto riunite a Palazzolo sull’Oglio – simbolicamente a metà strada tra le due città – servirebbe lo slancio per costruire, passo dopo passo, politiche comuni, che poi potrebbero estendersi ad altri enti e associazioni, come le Camere di Commercio, o ancora le Università.
In uno scenario ideale, questo percorso vedrebbe come risultato la fusione fra alcune delle principali realtà delle due province. Credere realistico che nel breve si possa realizzare è poco realistico, però. Anzi, lo stesso fatto che si vada avanti con queste riflessioni non è da dare per scontato. Se i presupposti ci sono, sarebbe bene dare una garanzia di continuità: la via intermedia potrebbe essere quella di costituire una Fondazione, dove potrebbero sedere allo stesso tavolo tutti i soggetti portatori d’interesse e gli enti locali, per ragionare assieme, magari promuovere ricerche e analisi, pianificare azioni e campagne congiunte. D’altra parte, in quel Veneto che citavamo prima, a dare identità al territorio, riuscendo a costruirne un’immagine unitaria spendibile sui mercati internazionali, è stata all’epoca la Fondazione Nordest. Certo non parliamo di qualcosa che si costruisce in pochi giorni, in un’assemblea, o in un singolo incontro. Eppure da qualche parte bisogna partire, e quest’occasione non merita davvero di andare sprecata.