Quando nel 2007 ho scritto il mio primo libro sulla globalizzazione, Ridefinire la strategia globale, la sensazione prevalente tra i dirigenti era che le imprese avrebbero potuto tranquillamente scommettere sul proseguimento della crescita della globalizzazione. A distanza di dieci anni, mentre sto terminando questo libro, vi sono ancora alcuni business leader, come il fondatore di Alibaba Jack Ma, che credono che sia inevitabile un ulteriore rafforzamento delle dinamiche della globalizzazione . Ma per la maggior parte i discorsi sulla globalizzazione hanno assunto toni pessimistici.
Ovviamente tale negatività deriva dallo schock della Brexit, ovvero il voto del Regno Unito per l’uscita dall’Unione Europea, e dell’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti (per riferirmi a questi due eventi congiuntamente utilizzerò il termine Brump). Ma gli umori si erano guastati già in precedenza. Nel maggio 2016, un mese prima del voto sulla Brexit, l’allora presidente e amministratore delegato di General Electric Jeffrey Immelt, durante il discorso alla cerimonia di consegna dell’MBA alla New York University dichiarò che era giunto il momento di una «svolta coraggiosa» verso la localizzazione in risposta al protezionismo crescente. La Brump incoraggiò questo spostamento: attuare una strategia globale passò da essere una necessità assoluta a un vero e proprio rischio. Solo una settimana dopo l’insediamento di Trump, nel gennaio 2017, la copertina dell’Economist annunciava “The Retreat of the Global Company”.
Per capire in che considerazione tenere tali opinioni e, più in generale, quale sia lo stato della globalizzazione, dobbiamo ricordare che le turbolenze attuali non sono del tutto nuove. Quello che oggi chiamiamo globalizzazione è un processo in corso da centinaia o forse addirittura migliaia di anni; per secoli, anche le nostre aspettative al riguardo hanno avuto un andamento altalenante, mostrandosi eccessive rispetto alla realtà per poi crollare bruscamente, in quello che io chiamo l’effetto yo-yo (o a fisarmonica) della globalizzazione.
Giocare con uno yo-yo è un passatempo divertente, ma per le imprese e le economie l’effetto yo-yo della globalizzazione è pericoloso, più simile a ciò che avviene in alcune diete che a un innocuo gioco per bambini. Come ha affermato l’investitore Peter Thiel nel 2008, «negli ultimi tre secoli, i periodi di grande potenza e di crisi dell’Occidente hanno seguito l’altalenarsi delle fasi della globalizzazione… [come] i picchi e gli avvallamenti del mercato azionario. Quasi tutte le bolle finanziarie hanno implicato né più e né meno un grave errore di calcolo sulle reali probabilità di successo della globalizzazione». Si noti che Thiel, che è stato un importante finanziatore della campagna elettorale di Trump nel 2016, concorda sul fatto che con l’elezione di Trump l’effetto yo-yo della globalizzazione è in fase discendente: «al giorno d’oggi nessuna persona sana di mente avvierebbe un’impresa inserendo nella sua denominazione la parola “globale”… Fa molto 2005, suona decisamente datata».
Il 2005 rappresenta infatti un anno emblematico per quanto riguarda l’ultima fase di risalita dello yo-yo della globalizzazione. Il mondo è piatto di Thomas Friedman, destinato a divenire il libro sulla globalizzazione più venduto di sempre, risale a quell’anno. In mezzo all’isteria da “mondo piatto” che precedette la crisi finanziaria globale del 2008, era facile dimenticare che meno di un decennio prima le aspettative sulla globalizzazione avevano subito una flessione anziché un incremento. Alla fine degli anni Novanta, l’euforia che aveva fatto seguito alla caduta del Muro di Berlino si era scontrata con la crisi finanziaria asiatica.
L’ansia nel mondo imprenditoriale era cresciuta a tal punto che all’inizio del 2001 un’importante società di consulenza strategica aveva riunito un gruppo di leader con il compito di esaminare le implicazioni per le imprese. Ho collaborato con uno dei partner della società per inquadrare la discussione in vista di un «salotto globale». La Figura 1.1, ripresa dalla nostra presentazione in quell’occasione, mette in evidenza molte delle questioni globali che oggi i business leader stanno ridiscutendo nel clima attuale di pessimismo. Le strategie dovrebbero passare dagli obiettivi di scala alla capacità di rispondere alle esigenze a livello locale? La presenza geografica delle imprese dovrebbe restringersi per ridurre i rischi? Il potere organizzativo dovrebbe essere trasferito ai responsabili regionali e a livello di Paese? E le multinazionali dovrebbero cercare di assomigliare alle loro controparti nazionali e agire come loro nei rapporti con i governi e la società nelle diverse parti del mondo?
Nel 2001, il principale esempio che utilizzammo per trovare una risposta a queste domande fu quello di Coca-Cola, all’epoca ritenuta il brand di maggior valore al mondo e quello con la più ampia copertura geografica. Per la maggior parte della sua storia, la strategia transfrontaliera e la struttura di Coca-Cola, in particolare, si sono collocate nella fascia grigia inferiore che comprende le diverse opzioni rappresentate nella figura 1.1. Come affermato da James Quincey, che ne divenne amministratore delegato nel 2017, «Coca- Cola è diventata globale prima della globalizzazione… [L]e cose funzionavano in questo modo: “Da oggi sei responsabile del Paese X. Buon viaggio, buona fortuna! Ci sono solo due regole: non puoi modificare la formula e non puoi rubare. Torna qui una volta all’anno per dirmi come vanno le cose”. Questo è stato il modello per più di 100 anni».
Dopo la nomina ad amministratore delegato di Roberto Goizueta nel 1981, mentre la globalizzazione stava prendendo slancio, Coca-Cola assunse un approccio più in linea con la fascia grigia superiore della figura. Goizueta mise in primo piano la crescita basata sui megabrand di Coca-Cola, ampliando la sua presenza da 160 a quasi 200 Paesi e dedicandosi a una centralizzazione senza precedenti, accorpando i vari dipartimenti e affidando la ricerca sui consumatori, i servizi creativi e gli spot televisivi all’agenzia pubblicitaria interna di Coca-Cola con l’intento di standardizzarli. Il prezzo delle azioni salì alle stelle e per diversi anni consecutivi Fortune classificò Coca- Cola come la società statunitense con la migliore reputazione a livello globale.
Douglas Ivester, subentrato dopo la morte improvvisa di Goizueta nel 1997, proseguì con questa strategia – «Nessuna svolta a sinistra, nessuna svolta a destra», come disse – ma dovette far fronte alla crisi asiatica e a problemi governativi, in particolare in Europa. Le autorità di regolamentazione dell’Ue si opponevano ai tentativi di Coca-Cola, diretti dalla sede centrale di Atlanta, di acquisire Orangina da Pernod Ricard e una serie di marchi di bevande analcoliche da Cadbury Schweppes. I ritardi nel risolvere alcuni problemi di contaminazione causarono ulteriori tensioni. La capitalizzazione di mercato di Coca-Cola crollò da un picco di 220 miliardi di dollari a meno di 120 miliardi di dollari – gli analisti l’avevano penalizzata per la sua esposizione globale – e Ivester fu licenziato.
Nel 2000 al suo posto arrivò Douglas Daft, e l’effetto yo-yo tornò a favore del localismo. L’attuazione del progetto «Pensa localmente, agisci localmente» portò al taglio di migliaia di posti di lavoro nella sede centrale; l’autorità decisionale fu ritrasferita sul campo. All’incontro che si era tenuto all’inizio del 2001, il nostro racconto della storia di Coca-Cola si fermò a questo punto. Concludemmo la presentazione con una domanda: queste oscillazioni estreme, in risposta a sentimenti mutevoli nei confronti della globalizzazione – più recentemente, l’oscillazione dall’alto verso il basso della figura – erano davvero giustificate?
Ora che sono passati più di quindici anni, la risposta a questa domanda dal punto di vista di Coca-Cola sarebbe chiaramente «no». I problemi legati a una localizzazione senza precedenti vennero rapidamente a galla: le economie di scala ne risentirono, così come la qualità del marketing. I country manager erano del tutto impreparati ad affrontare maggiori responsabilità. Nel 2002, Coca-Cola riportò la supervisione del marketing presso la sede centrale, un’operazione che si rivelò già di per sé impegnativa, in quanto l’assunzione di un nuovo team richiese più tempo rispetto a quanto ne fosse occorso per licenziare il vecchio. Ma la crescita continuò a essere inferiore alle aspettative degli investitori e nel 2004 Daft rassegnò le dimissioni.
Spettò a Neville Isdell, che prese il posto di Daft, trovare il giusto equilibrio tra questi estremi. Ciò che merita particolare attenzione in questo contesto, considerata la corrispondenza tra l’altalenarsi delle strategie di Coca-Cola e alcune delle raccomandazioni che oggi vengono rivolte con insistenza alle aziende, è quanto questo avanti e indietro sia stato costoso per Coca-Cola. Nonostante i suoi evidenti punti di forza, all’azienda occorsero quasi dieci anni e probabilmente decine di miliardi di dollari per ritrovare un proprio equilibrio.
Ovviamente, quello di Coca-Cola è solo un esempio emblematico, ma è bene non trascurare la sua esperienza; anche se la storia può non ripetersi, a volte le somiglianze sono evidenti. Invece di arrendersi ai cambiamenti di opinione e seguitare ad altalenarsi tra gli estremi come ha fatto Coca-Cola, le imprese dovrebbero studiare a lungo e minuziosamente la globalizzazione prima di decidere come affrontarla. L’intento di questo libro è aiutarvi in questo compito. La prima parte analizza a che punto è la globalizzazione e che direzione potrebbe prendere, mentre la seconda parte esplora le implicazioni delle scelte legate alla globalizzazione che le imprese devono affrontare.
*Pankaj Ghemawat è esperto di strategia aziendale e globalizzazione, e consigliere strategico di Tata Motors, oltre che global professor of Management and Strategy e direttore del Center for the Globalization of Education and Management presso la Stern School of Business della New York University