Il ciclo di vita di un’impresa può essere distinto in una fase iniziale che è quella della creazione dell’azienda, seguita dalla sua crescita ed infine dal passaggio generazionale dai fondatori a eventuali eredi o terzi. Un fallimento in questo processo, che porta alla chiusura dell’azienda ha ripercussioni negative non solamente sulla proprietà ma anche su tutti gli stakeholder: tessuto economico delle imprese fornitrici e clienti, lavoratori, contesto sociale di riferimento.
Se pensiamo a tutte le imprese in cui la leadership è nelle mani di una famiglia, la trasmissione del patrimonio è il punto d’incontro tra interessi, esigenze e aspettative molto diverse tra loro. In caso di mancata pianificazione, vi è una deriva generazionale che non risponde probabilmente agli interessi di nessuno dei soggetti coinvolti.
Ma quali sono i principali rischi della mancata pianificazione successoria? Possiamo dividerli in quattro macro-aree: patrimoniali, gestionali, emotivi e fiscali.
Nell’ambito patrimoniale il principale rischio è quello di conflitti tra familiari sulla gestione delle quote. In caso di mancata pianificazione, infatti, il patrimonio viene diviso equamente e solidalmente tra tutti gli eredi legittimi, secondo le quote previste dalla normativa, determinando una frammentazione soprattutto nel caso di immobili e aziende. Mentre per quanto riguarda gli asset finanziari la divisione risulta semplice, sulle quote aziendali potrebbero esserci disaccordi tra il mantenimento del controllo o l’eventuale cessione della società. Qualora poi la lite dovesse sfociare nel campo legale e processuale, si rischierebbe un immobilismo dannoso per tutti i soggetti coinvolti, senza considerare le ingenti spese legali nell’allungamento della trasmissione patrimoniale. Sul fronte immobiliare invece, il rischio principale è il deprezzamento: le proprietà coinvolte in dispute successorie vengono penalizzate dal mercato in quanto proposte d’acquisto anche al di sotto del reale valore potrebbero essere comunque considerate per porre fine al contenzioso.
Collegata alla questione patrimoniale vi è quella meramente gestionale in relazione alla nuova compagine sociale e all’eventuale frammentazione del controllo dell’azienda. Qualora l’erede sia solamente uno non vi sono problemi di frammentazione, quanto più relativi all’effettiva capacità dell’erede di portare avanti la società o alla sua volontà di farlo. Non tutti sognano di essere imprenditori e la condivisione delle scelte familiari future può far convergere i diversi interessi. Medesime riflessioni possono essere fatte in presenza di una molteplicità di eredi, dove va stabilito chi ha le capacità e la volontà per proseguire nella strada segnata dall’imprenditore ed eventualmente come gestire la compresenza con gli altri successori. E’ fondamentale che il passaggio dall’imprenditore agli eredi avvenga in un lasso temporale ristretto e che permetta quindi di mantenere l’operatività e l’efficienza aziendale, senza creare incertezza verso gli stakeholder.
Emergono quindi importanti questioni emotive collegate a tutti i fattori del processo ed intersecate con ognuno di questi: economici, legali, fiscali, civilistici, organizzativi. La pianificazione consente di conoscere la volontà di tutti i soggetti e di cercare la migliore soluzione per il benessere collettivo della famiglia.
Infine, la mancata pianificazione porta con se importanti inefficienze dal punto di vista fiscale. Esistono infatti diversi strumenti, come il patto di famiglia, la costituzione di una holding, la creazione di un fondo di famiglia, per limitare l’impatto fiscale che il passaggio delle quote dal fondatore agli eredi può generare, sia per quanto concerne le partecipazioni che per quanto riguarda gli altri asset detenuti.
Uno dei casi di maggior rilievo negli ultimi anni in ambito di trasmissione successoria è senza dubbio il caso Esselunga. Non possiamo parlare di mancata pianificazione in quanto Bernardo Caprotti (in foto) ha predisposto e modificato in vita diverse volte l’assetto successorio, ma senza l’accordo e il confronto con la compagine ereditaria. Gli economics della società rimangono ancora oggi in crescita, e la scomparsa del fondatore non ha impattato sull’andamento dell’azienda, ma sono stati evitati tutti i rischi visti in precedenza?
Un primo tentativo di successione era stato fatto già nel 1996 con la cessione delle quote ai figli del primo matrimonio, Giuseppe e Violetta, poi revocata nel 2011 e finita in tribunale con la decisione portata in Cassazione nel 2014 e la vittoria di Bernardo Caprotti. Da lì, la decisione di destinare il controllo e la maggior parte del patrimonio alla seconda moglie Giuliana e alla figlia Marina. Non potendo escludere i due figli del primo matrimonio per questioni di legittima, Caprotti ha utilizzato semplicemente le possibilità date dalla normativa, destinando alla moglie il 25%, ai tre figli in parti uguali il 50%, ovvero il 16,67% a testa. Concedendo il 25% di disponibile a Giuliana e Marina ha così garantito loro il 66,67% delle partecipazioni e di conseguenza il controllo della società.
E la difficoltà del percorso emerge anche nelle parole del testamento dello stesso Caprotti: “Dopo tante incomprensioni e tante, troppe amarezze – dice il testamento – ho preso una decisione di fondo per il bene di tutti, in primis le decine di migliaia di persone i cui destini dipendono da noi”. E aggiunge: “Famiglia non ci sarà, ma almeno non ci saranno lotte. O saranno inutili, le aziende non saranno dilaniate”.
Se il suo operato è servito probabilmente per evitare quindi il rischio gestionale, garantendo la continuità aziendale, e quello patrimoniale, definendo in anticipo la divisione ereditaria, altrettanto non si può dire per l’aspetto emotivo. Come evidente dalle sue parole, il processo ereditario ha diviso la famiglia e compito del fondatore è stato quello di pianificare nel dettaglio la trasmissione onde evitare che, dopo la sua scomparsa, potessero proseguire le liti tra gli eredi che avrebbero probabilmente pregiudicato il futuro della società.