È passato poco meno di un anno, al netto delle brevi riaperture estive, dalle prime chiusure che hanno coinvolto il mondo dello spettacolo. Le ricadute sono state in generale pesantissime, ma più per i lavoratori dello spettacolo che non per gli enti, soprattutto per quelli che godono di abbondanti finanziamenti statali. Certo, a differenza del primo lockdown, almeno oggi gli artisti possono svolgere le prove sui palchi dei teatri, nella speranza di un’eventuale ripresa imminente, forse già dopo Pasqua. Ma l’attesa di riprendere a fare arte dal vivo si fa sempre più angosciante, sia per i lavoratori che per gli spettatori.
Gli aiuti da parte dello Stato ci sono stati, principalmente attraverso gli ammortizzatori sociali e il cosiddetto Fondo Unico per lo Spettacolo – che per l’anno 2021 ammonta a 408,4 milioni di euro –, grazie al dialogo costruttivo tra le associazioni di categoria e il Ministero per i beni e le attività culturali. La logica che sta dietro al Fus è quella di garantire sussidi economici alle attività caratterizzate da una certa stabilità. Ed effettivamente è proprio quello che sta avvenendo con tutti gli enti pubblici che hanno i requisiti in regola per farne richiesta. Ma ciò che ostacola una ripresa organica del settore teatrale è che, a conti fatti, mentre sono molti i teatri ad aver goduto di ampi finanziamenti attraverso lo strumento del Fus, ai lavoratori dello spettacolo, soprattutto ai freelance, sono andate solo le briciole.
«È l’inghippo di un sistema – dice Federico Pupo, direttore di Asolo Musica e direttore artistico della stagione concertistica del Teatro Comunale di Monfalcone – che sostiene le grandi attività a livello nazionale ma non è in grado di guardare alla capillarità del territorio e alle peculiarità essenziali del nostro tessuto sociale. Manca, in definitiva, una reale sussidiarietà tra il Ministero e le diverse realtà territoriali. Quello che sta accadendo in questo momento deve costituire la spinta ad un ripensamento del mondo dell’arte, in un’ottica di un sostegno alle attività culturali a tutti i livelli che sia realmente sistemico. Anche e soprattutto nei confronti delle realtà periferiche.»
La situazione si fa ancora più pesante se si considera la situazione della filiera di tutte le persone con contratti a chiamata, che non possono usufruire della cassa integrazione: una categoria che purtroppo costituisce una percentuale ancora molto alta nel mondo dell’arte italiana. Anche a questo proposito il Ministero ha previsto ristori per le figure artistiche e tecniche dei teatri, ma nemmeno questa volta sembra aver preso in considerazione le peculiarità e le modalità lavorative tipiche di questo settore. Parliamo di professionalità altamente specializzate il cui lavoro è frutto di anni di allenamento ed esperienza, che però vengono spesso tagliate fuori dalle misure degli ammortizzatori sociali. Questo fenomeno apre le porte alla spinosa questione dell’irregolarità forzata, di cui molto spesso i lavoratori di questa categoria sono vittime: non sempre hanno la garanzia di poter lavorare in ossequio delle norme contributive. Per questo motivo molti, una volta esplosa l’emergenza sanitaria, si sono ritrovati in una situazione di totale impreparazione rispetto ai contributi statali, dovuta proprio all’impossibilità di dichiararsi professionisti del mestiere. A causa di queste difficoltà, moltissimi lavoratori teatrali hanno dovuto reinventarsi e cambiare impiego. Il mondo dello spettacolo porta su di sé le ferite del generale ritardo culturale italiano, e la drammatica situazione dei lavoratori dei teatri è solo uno dei tanti nodi che stanno venendo al pettine in seguito allo scoppio dell’emergenza sanitaria.
Quasi tutti i teatri, per spirito di sopravvivenza, hanno cominciato durante il periodo di lockdown a spaziare verso i mondi ancora inesplorati della rete, cercando di adattarsi alla situazione del momento e finendo per coniugare l’espressione artistica in maniera nuova. Ma se questa sia una scelta strategica o se sia stata solamente una scelta di testimonianza dell’esistenza in vita, è una questione controversa. Da una parte c’è chi la vede come l’occasione giusta per dare una svolta radicale al mondo culturale italiano e superare la concezione classica del teatro, che sta ammuffendo nella sua stessa volontà di farsi a tutti i costi rappresentante della cosiddetta “cultura alta”.
«La rete è il futuro del teatro, e noi siamo decisi a seguirne l’onda – sostiene fermamente Giampiero Beltotto, presidente del Teatro Stabile del Veneto –. Sarebbe anacronistico ritenere di poter tornare ad una situazione pre-Covid. Se c’è una nota positiva che possiamo trarre da tutta questa situazione è proprio l’apertura verso un nuovo linguaggio con il quale leggere la realtà, che senza dubbio costituirà un importante strumento di innovazione artistica e culturale.»
D’altra parte, al contrario, c’è chi sostiene che gli strumenti digitali non possano essere altro che fiochi sostituti del teatro dal vivo, l’unico che possa costituire – oggi come ieri – il vero futuro dell’arte. «Lo streaming – sostiene Pupo – è un utile strumento di supporto per lo spettacolo dal vivo. Ma non può in alcun modo esserne sostitutivo. All’artista manca totalmente la risposta acustica ed emozionale che deriva dal contatto diretto con il pubblico, e viceversa, ragion per cui la performance che arriverà alle orecchie degli ascoltatori risulterà almeno in parte artefatta.»
Tuttavia, non per questo si esclude che gli strumenti tecnologici e le conoscenze digitali apprese in questi ultimi mesi non possano apportare delle interessanti innovazioni anche in ambito teatrale. Dice a questo proposito Paolo Valerio, direttore artistico del Teatro Stabile di Trieste e già direttore artistico della Fondazione Atlantide del Teatro Stabile di Verona: «Sono assolutamente convinto che non appena potremo riaprire i teatri, il pubblico riempirà le sale – nel rispetto delle misure sanitarie – per tornare ad assistere agli spettacoli dal vivo. Una cosa è certa: faremo tesoro delle esperienze acquisite in questo periodo, in un’ottica di innovazione dei progetti digitali in parallelo e a sostegno delle attività teatrali. Ma è necessario prendere coscienza che lo spettacolo non può sopravvivere senza lo spettatore, e che il teatro dal vivo è l’unico che abbia senso di esistere.»